Onora il padre e la madre

di Sidney Lumet (2007)

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  1. frankwalker
     
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    Andy e Hank sono due fratelli che navigano in cattive acque e, per tirarsene fuori, decidono di organizzare una rapina. Ma la sorpresa, che complica un quadro già intricato, è che Andy, il maggiore, ha pensato ad insaputa di Hank che la rapina debba svolgersi nella gioielleria dei genitori. Purtroppo la situazione sfugge loro di mano. Dovranno così fare i conti con l’ira del padre, Charles.

    :D Ricapitoliamo. Per sfuggire alle menzogne di un nucleo familiare le cui radici e i cui valori hanno le polveri bagnate, si può (ri)scoprire il piacere dell’avventura guardando verso un mondo “altro” (un nuovo mondo, malickianamente parafrasando), coltivando esperienze di gruppo come confronto/scambio di caratteri. In una terra desolata pronta, però, ad apparire… desolante, essendo conquista di un imminente nemico: il capitalismo che, tramutatosi in progresso, schiaccia ogni cosa, comprese le sopra citate radici familiari (o quello che sembrano).
    Ciò che resta, nel frattempo, è solo polvere e sangue, sabbia e scorpioni: il Male, armato di pompa ad aria compressa, è pronto a ripresentarsi come niente fosse, mietendo vittime più di un’arma a proiettili dum-dum, e ciò che lo guida (o meglio, lo anima) è il “deus-ex-machina” del denaro, di fronte al quale tutto – famiglia compresa, ancora una volta – passa in secondo piano. Occorre salvare la pelle, e prim’ancora quel che si crede “benestare”. Il cinismo, la corruzione – in una parola, la superficialità – ha spazzato via le radici di quella frontiera i cui spettri gridano vendetta nelle parole di uno sceriffo vecchio e stanco, lui sì figura meritevole, senza saperlo, di redenzione.
    Agli eredi, cioè noi, cosa resta? Nulla. Siamo cadaveri e non ce ne rendiamo conto. Nemmeno sappiamo di esserlo. Le vittime si moltiplicano e vi camminiamo sopra nell’indifferenza, le calpestiamo. E, sempre in nome di un presunto benessere, nascondiamo i traffici, le fonti del nostro guadagno nei loro cadaveri. Che potrebbero essere il nostro ipotetico cibo, oggi come oggi: potremmo cucinarli, farne pasticci, torte e sformati. Frattanto, nei ritagli di tempo, covare una vendetta. Quale? Ci hanno sottratto i nostri affetti: il Male ha rubato la nostra esistenza. Ma il Male è in ognuno di noi, è parte integrante dell’esistenza. Farne carne da macello, sempre che non si disponga di una moneta (il solo strumento da cui dipende il destino dell’umanità), significa non rendersi conto di ripercuotersi (anche) verso quelli che sono i nostri figli, gli ignari, e quindi gli innocenti. Pronti, però, per uno scherzo del destino, a morire avvelenati per colpa di un frutto non commestibile. O diventare delinquenti loro malgrado, spinti da condizioni familiari disastrate o dal rancore di fratelli che covano nei loro confronti un odio cieco, represso.
    Questo, ci sta insegnando il cinema americano dell’ultima stagione. Questo, a voler trovare per forza un denominatore comune, ci mostrano le ultime opere di Scott, Penn, Anderson, Burton, i fratelli Coen. Questo, pure, si ritrova nell’ultima fatica di un autore, Sidney Lumet, i cui venerandi 84 anni (di)mostrano come sia possibile, attraverso il proprio consumato mestiere, il proprio stile e la propria arte, fare cinema – anzi, Cinema – radiografando un periodo sordido, buio, in cui risulta arduo, per non dire impossibile, distinguere il Bene dal Male perché le radici sono marce. E quali più appropriate allo scopo, se non quelle familiari cui si accennava? Il mancato affetto che si ripercuote, per egoismo interessato o mera ripicca personale, sui suoi simili, sotterrando non solo sé stesso, ma anche i propri legami. Scombussolando perfino il tempo, reso ormai instabile anche perché i modelli cinematografici – come la società e le sue tendenze, i suoi usi e costumi – sono costretti, inevitabili, a cambiare. Al servizio di questo, un cast di sofferta bravura: in testa, un Philip Seymour Hoffman inarrivabile in un ruolo tanto meschino e sanguinario quanto vigliacco e patetico, sino a un redivivo Albert Finney, cui spetta il gesto più dolente e nichilista.
    Ma quanto si legge, è solo il delirio di un cinefilo? Una visione al termine della quale non resta che sorridere come Noodles nel film di Leone? Per chi scrive, solo un puzzle che vorrebbe radiografare metaforicamente il tempo in cui viviamo attraverso gli occhi di grandi(ssimi) autori, ognuno dei quali teso, a sua volta, a lanciare un monito – disperato o meno, ma sempre una testimonianza – a chi subentrerà, se è vero che guardiamo agli Stati Uniti come modello di riferimento convinti di trovarci (ancora) di fronte a… Lamerica. Memoria del cinema: americano, sì, ma ancora capace di far pensare, incessante, di fronte a cui i caos calmi nostrani, e le diciotto nomination ai David di Donatello che il film con Moretti si è aggiudicato, sono solo calma senza caos. Sostenibile leggerezza del malessere. Che si invidia, certo, ma cui non si è (più) capaci di guardare con coraggio, di ricordare con rabbia. Ai posteri l’ardua sentenza.

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    Edited by frankwalker - 24/3/2008, 15:00
     
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  2. ad.amasio industrialis
     
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    a me è piaciuto. molto violento e intenso, attori stratosferici, grande regia, bel plot.... consigliato!
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  3. DayDreamer86
     
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    Tra le visioni più nere a cui il cinema ultimamente ci sottopone, quella di Lumet è forse fra le più pessimiste e inquietanti in assoluto. Con la sua lunghissima esperienza cinematografica, per un film lucido e inesorabile come questo dimostra ancora di possedere una solidissima regia, e di conseguenza uno sguardo morale sulla realtà attuale che pochi ancora hanno. Un bravo regista come lui si può permettere un intreccio tanto complicato (ma calibratissimo) fatto di ottime caratterizzazioni e di salti temporali repentini senza nessuna sbavatura. Questa scansione da indagine poliziesca (non sfigurerebbe in un ottimo giallo) svela a poco a poco una fitta trama di cause ed effetti analizzati con cura certosina, ed è assolutamente funzionale alla tesi del film. Anatomia di un delitto in famiglia. Ovvero: anatomia del degrado morale di una società votata all'autodistruzione. Non c'è futuro con la perdita dei più fondamentali valori, dei più elementari legami affettivi: esiste solo cinica lotta per l'autoaffermazione, che è anche lotta parricida e figlicida. Tutti colpevoli e tutti vittime. È l'Occidente in agonia.

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  4. Lory Tave
     
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    .....amo alla follia questo gioiello!!!!!!!
    un viaggio nella violenza.....
    all interno della psiche umana e della famiglia......
    come solo LUMET sapeva fare!
    il montaggio in "sequenza temporale disordinata"
    con quei cambi in avanti e indietro.....
    ricorda quello "tarantiano"
    e acc rende tutto ancora + doloroso..tragico e disperato!!!!!
    cosa non si arriva a fare x i soldi!!!!!!!
    guardo recitare HOFFMAN e.....
    m incanto!!!!!!!
    colpisce...stupisce..emoziona....
    specie nella sequenza ...
    del dialogo tra padre e figlio.....
    lì seduti nel retro della casa.......
    mamma mia !!!!!!
    un aggettivo x definirlo?
    "AGHIACCIANTE"
    quella sequenza finale.....
    di lui che si allontana in quel corridoio d ospedale...
    e scompare avvolto in quella luce accecante.......
    è un pugno nello stomaco che mozza il fiato......
    CAPOLAVORO!!!
     
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3 replies since 21/3/2008, 18:00   215 views
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